Amazon, Apple, Google, Meta e Cloudflare contro Piracy Shield: la lettera della CCIA ad AGCOM

Amazon, Apple, Google, Meta e Cloudflare contro Piracy Shield: la lettera della CCIA ad AGCOM

La Computer & Communications Industry Association fa sentire la sua ad AGCOM sul tema Piracy Shield: non bisogna effettuare blocchi a livello di rete ma colpire direttamente alla fonte

Continua a far discutere Piracy Shield, il sistema anti-pirateria promosso da AGCOM e attualmente al centro della consultazione pubblica avviata a marzo. Tra le voci più critiche figura quella della Computer & Communications Industry Association (CCIA), che rappresenta alcune delle principali realtà del mondo digitale, tra cui Amazon, Apple, Google, Meta e Cloudflare.

Nella sua risposta ufficiale, pubblicata a inizio aprile, la CCIA ha espresso serie preoccupazioni sul progetto, evidenziando carenze di trasparenza, una base giuridica fragile e rischi per la libertà d’impresa e di espressione, diritti tutelati sia dall’ordinamento italiano che da quello europeo.

Origine controversa e gestione opaca

Uno degli aspetti più critici secondo l’associazione riguarda l’origine stessa del sistema: Piracy Shield è stato sviluppato da SP Tech, società controllata dalla Lega Serie A, cioè uno dei principali beneficiari del sistema. Un evidente conflitto d’interessi, secondo la CCIA, aggravato da una gestione poco trasparente: le specifiche tecniche non sono state rese pubbliche e al tavolo tecnico hanno partecipato solo pochi soggetti selezionati, escludendo gran parte del settore digitale. Ciò solleva dubbi sulla neutralità dell’infrastruttura.

Overblocking e scarsa tutela

L'associazione cita anche casi concreti di overblocking, in cui sono stati coinvolti servizi legittimi come Google Drive, penalizzati per aver condiviso indirizzi IP con piattaforme effettivamente colpevoli di pirateria. Il meccanismo di blocco, così com'è strutturato, rischia quindi di colpire anche chi non ha alcuna responsabilità.

La CCIA definisce irrealistico e tecnicamente insostenibile il termine di 30 minuti previsto per eseguire un ordine di blocco, come stabilito dall’articolo 10 del regolamento in consultazione. La norma prevede che AGCOM, su richiesta dei titolari dei diritti, possa ordinare il blocco dei contenuti online in modo dinamico, anche tramite aggiornamenti diretti da parte dei segnalatori. Il tutto senza una verifica preventiva né un effettivo contraddittorio.

Critiche anche al termine per eventuali ricorsi: cinque giorni sono giudicati insufficienti per garantire un’adeguata tutela, considerata la rapidità e la potenziale arbitrarietà dei provvedimenti.

Dubbi sul potere extraterritoriale

Particolarmente controverso anche il nuovo articolo 8, comma 3-bis, che consentirebbe ad AGCOM di ordinare la rimozione di contenuti da server situati in altri Stati membri dell’UE, appellandosi genericamente al Digital Services Act. La CCIA chiede che venga chiarito su quale norma concreta si basi questo potere, e invita AGCOM a coordinarsi con quanto già previsto dal paragrafo 4 dello stesso articolo, che consente il blocco tramite i provider italiani senza necessità di intervenire direttamente su server esteri.

La coesistenza di questi due strumenti — sottolinea l’associazione — rischia di generare sovrapposizioni normative e confusione giuridica.

Un approccio da ripensare

In conclusione, la CCIA chiede di essere ascoltata in audizione e invita AGCOM a rivedere profondamente l’impianto del sistema, abbandonando la logica del blocco a livello di rete — considerato facilmente aggirabile e spesso sproporzionato — per concentrarsi invece sulla rimozione dei contenuti alla fonte, colpendo i veri responsabili della distribuzione illecita.

Secondo l’associazione, solo un approccio più equilibrato e trasparente può garantire un’efficace tutela dei diritti senza compromettere l’innovazione, la libertà online e la competitività del settore digitale.

Fonte: Dday.it

Marco P.

Marco P.

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